Stats Tweet

Porta, Carlo.

Poeta dialettale italiano. Figlio di un funzionario delle Finanze, compì gli studi a Monza nel collegio dei Gesuiti (1786-91), quindi nel seminario di Milano. Intraprese la carriera impiegatizia, soggiornando per un breve periodo in Austria e a Venezia, dove entrò in contatto con i più noti poeti dialettali, e compose versi in veneziano, non pervenutici. Nel 1792 pubblicò due almanacchi (citiamo in particolare El lavapiatt del Meneghin ch'è mort) e nel 1795 tradusse in milanese l'ode A Silvia di G. Parini, rimasta incompiuta; ai primi anni dell'Ottocento risalgono dei frammenti di una traduzione in dialetto di alcuni canti dell'Inferno di Dante. Impiegato all'intendenza di Finanza, costituì un salotto familiare (la "Cameretta") dove si riunivano personaggi della cultura del tempo, fra cui U. Foscolo, A. Manzoni, G. Berchet, T. Grossi, E. Visconti. Dopo aver condiviso inizialmente l'entusiasmo suscitato dalla Rivoluzione francese e dalla nascita della Repubblica Cisalpina, ne riconobbe in seguito il carattere vessatorio e antiliberale, criticando i metodi dei falsi liberatori francesi, e deridendo l'onnipotenza di Napoleone, la cui ideologia, per altro, non venne mai apertamente disapprovata (del 1810 è il Brindes per le nozze dell'imperatore con Maria Luisa). Del restaurato Governo austriaco colpì con le sue satire gli aspetti retrogradi, gli abusi e il clericalismo, sebbene la sua satira anticlericale non toccò mai i principi della fede, ma si accanì contro la superstizione, l'ipocrisia e le strumentalizzazioni politiche: Ona vision (1812) rappresenta la condanna di chi crede di conquistarsi la Grazia attraverso le opere di carità; Fraa Diodatt; Fraa Zenever; On miracol (1813-14) sono comiche trascrizioni di pie leggende medioevali; El viaac de fraa Condutt; La messa noeuva; On funeral (1816) esprimono la condanna dell'ipocrisia religiosa. Alle radici della sua opera stanno l'insegnamento di Parini, le polemiche del "Caffè", la Milano dei Verri e di Beccaria, con il bisogno di una letteratura dal contenuto moderno e vivo e di una lingua concreta e aderente alle cose. L'impiego del dialetto trovò le sue radici nella viva tradizione della poesia in vernacolo della sua città (Maggi, Birago, Tanzi, Passeroni, nonché la tradizione dei cantastorie) e nel desiderio di esprimere con immediatezza ed evidenza la sua adesione ai temi e alle occasioni di un'umanità moderna, naturale, priva di artifici. Il dialetto si configura come scelta di un linguaggio realistico, capace di connotarsi diversamente a seconda del carattere dei personaggi e delle situazioni. Negli ultimi anni della sua vita, aderendo al dibattito classico-romantico del suo tempo, pur senza troppo impegno teorico, P. svolse la sua polemica antiumanistica e antimitologica attraverso alcune opere (El romanticismo, 1818-19; il Meneghin classegh), in cui tradusse in principi di buon senso i capisaldi del Romanticismo, affermando il senso spontaneo della poesia, svincolata da qualsiasi tipo di regola. La satira sociale di P. si esprime sempre in termini morali, mai politici, secondo una tradizione risalente a Parini. Attraverso una serie innumerevole di toni viene denunciato il malcostume della vita pubblica e l'assurdità della persistente ingiustizia sociale, tratteggiando una nobiltà assurdamente abbarbicata alla sua alterigia (Nomina del cappellan, 1819-20), un mondo clericale ipocrita e reazionario, oppure la realtà popolare nella sua umile quotidianità (I desgrazi de Giovannin Bongee, e Olter desgrazi de G. Bongee, 1812-13; La Ninetta del Verzee, 1814; El lament de Marchionn di gamb avert, 1816). Il linguaggio da trivio, naturale e spregiudicato, accentua la sincerità delle situazioni patetiche, fissandole in un'atmosfera di realtà e di concretezza ambientale, senza nulla concedere né alla volgarità dei toni, né al sentimentalismo generico. La poesia di P. rappresenta la soluzione più ardita e innovativa di un'esigenza largamente diffusa di narrativa moderna, anticipando, attraverso la precisione degli scorci ambientali e le soluzioni narrative, il romanzo naturalista della seconda metà dell'Ottocento (Milano 1775-1821).